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Le incertezze sui primi asteroidi

dr. Claudio Elidoro

Una sintesi dell'articolo venne pubblicata su Coelum n° 94-aprile 2006
Si ringraziano l'autore e l'editore per la gentile concessione


Chi segue con un po’ di attenzione le vicende riguardanti le scoperte dei KBO si è talvolta imbattuto in veri e propri balletti di cifre a proposito delle effettive dimensioni di quei planetoidi ghiacciati. E’ sufficiente comunque ricordare che si sta parlando di oggetti non giganteschi e decisamente lontani, collocati ben al di là dell’orbita di Plutone, che queste incertezze risultano perfettamente comprensibili anche i non addetti ai lavori.

Forse, però, non tutti sanno che agli albori della scoperta degli asteroidi della Fascia principale le incertezze degli astronomi sulle reali dimensioni di quei nuovi inquilini del Sistema Solare erano di gran lunga più grandi. Proviamo dunque a ripercorrere il tira-molla dimensionale che, a partire dalla loro individuazione, ha coinvolto da vicino i primi quattro asteroidi scoperti, vale a dire 1 Cerere, 2 Pallade, 3 Giunone e 4 Vesta.

 

La scoperta

Anche se le vicende che hanno dato il via alla saga degli asteroidi sono piuttosto note, credo sia doveroso accennarle, seppur brevemente. Non si dimentichi, infatti, che si trattò di un evento epocale nella scienza astronomica. La fortuita scoperta di Giuseppe Piazzi non solo cominciò a svelare la presenza di corpi celesti che, esattamente come i pianeti maggiori, orbitavano intorno al Sole (cosa assolutamente sconvolgente se si pensa al rigore matematico che si voleva attribuire alla distribuzione delle distanze dei pianeti), ma indicò in modo deciso la necessità di disporre di strumenti più perfezionati per studiare le loro orbite. Credo che tra i semi iniziali della Meccanica celeste, una disciplina che tante soddisfazioni avrebbe dato all’astronomia prima di mostrare – ahimè – i suoi limiti ineliminabili, non possiamo certo dimenticare di collocare il lavoro di Karl Friedrich Gauss. E il primo successo del suo metodo di calcolo delle orbite fu proprio la "riscoperta" di Cerere quasi un anno dopo l’individuazione di Piazzi.

E’ noto a tutti che Piazzi individuò Cerere la notte del 1 gennaio 1801, forse un po’ meno noto che per quasi un anno rimase l’unico a poter vantare tale osservazione. Inizialmente scambiato per un’insolita cometa stranamente priva chioma, Cerere venne seguito da Piazzi fino agli inizi di febbraio, poi se ne perse ogni traccia. La determinazione dell’orbita secondo i metodi allora utilizzati non fu di grande aiuto per la riscoperta del primo asteroide e solo quando Gauss ci mise lo zampino il barone Francis Xaver von Zach (l’ideatore della Himmel Polizei, il drappello di astronomi che dava la caccia al pianeta "mancante" secondo la Legge di Titius e Bode) riuscì a ritrovare Cerere il 7 dicembre 1801. L’osservazione venne ripetuta il 31 dicembre e confermata in modo indipendente da Heinrich Wilhelm Matthaus Olbers un paio di giorni più tardi. La festa fu doppia: non solo si commemorava un anno dalla prima osservazione, ma si verificava sul campo che il metodo di Gauss era assolutamente affidabile.

La solitudine di Cerere durò solo per altri tre mesi, fino a quando il 28 marzo 1802 Olbers scoprì Pallade. La somiglianza dei due periodi orbitali indusse Olbers a ipotizzare di trovarsi di fronte ai frammenti di ciò che un tempo poteva essere un pianeta e la prospettiva di individuarne altri fu un incredibile stimolo per gli osservatori. I risultati, però, non furono immediati. Dopo la scoperta di Giunone da parte di Karl Ludwig Harding, astronomo dell’Osservatorio di Lilienthal, il 1° settembre 1804 si dovranno attendere ben due anni e mezzo, e precisamente il 29 marzo 1807, prima che lo stesso Olbers scoprisse Vesta. Poi nulla di nuovo fino al 1845 (8 dicembre), quando Karl Hencke scoprì Astrea coronando la sua ricerca iniziata 15 anni prima. Insomma, ci volle mezzo secolo prima che l’incredibile e fruttuosa caccia all’asteroide si mettesse definitivamente in moto.

 

Le prime valutazioni

La stima delle dimensioni di questi nuovi inquilini del Sistema Solare non fu tra le prime preoccupazioni degli astronomi di quel tempo. Al primo posto, infatti, vi era il problema della loro rintracciabilità. Non si voleva assolutamente correre il rischio che, come era successo inizialmente con Cerere, si potessero perdere le loro tracce. Dopo che Gauss convinse tutti quanti che con il suo metodo si poteva stare tranquilli, però, si cominciarono ad affrontare anche questioni più propriamente astrofisiche, iniziando proprio dalla valutazione del loro diametro. E allora cominciarono le sorprese.

Oggi ormai sappiamo che la difficoltà oggettiva con cui si doveva fare i conti era quella delle dimensioni davvero ridotte di questi pianetini (non dimentichiamo che Cerere, anche quando è all’opposizione, sottende solamente circa 0,7 arcosecondi), ma accanto ad essa si deve mettere in conto che la strumentazione tecnica di cui allora si disponeva era assolutamente inadeguata. Con il suo riflettore da 16 centimetri e un dispositivo che gli permetteva di confrontare il disco del pianetino con un piccolo disco illuminato, nel 1802 Sir William Herschel stabilì che il diametro di Cerere dovesse essere di 259 km mentre quello di Pallade di 238 km. Misure comunque ritenute estremamente incerte anche dallo stesso Herschel, che più volte annotò come l’aspetto dei due pianetini variasse considerevolmente da notte a notte proponendo conseguentemente valori differenti.

Più o meno nello stesso periodo identiche misurazioni venivano compiute anche dall’astronomo tedesco Johann Hieronymus Schröter, che nel 1811 pubblicò i risultati del suo lavoro. Per Schröter il diametro di Cerere era di 2613 km, quello di Pallade 3380 km e quello di Giunone 2290 km. Viene immediato notare non solo come queste misure siano almeno una decina di volte più grandi di quelle di Herschel, ma che finiscano praticamente con l’attribuire ai tre pianetini lo stesso ordine di grandezza che caratterizza Mercurio.

L’estrema incertezza sulla materia è testimoniata anche dalle pubblicazioni dell’epoca che in alcuni casi sposavano una delle due visioni, ma talvolta – molto salomonicamente – le riportavano entrambe. Curioso che nessuno, a quanto ci è dato di sapere, si ponesse il problema se la presenza di oggetti delle dimensioni della Luna non potesse comportare qualche problema di reciproco disturbo gravitazionale.

Una cosa era comunque certa: i primi quattro asteroidi erano considerati pianeti a pieno titolo. Un libro inglese scritto in forma di dialogo e destinato alla divulgazione dell’astronomia tra i bambini (First steps to Astronomy ang Geography, Hatchard and Son, Piccadilly, London, 1828) riporta la seguente domanda/risposta:

Quanti pianeti ci sono, dunque?

Ce ne sono undici: Mercurio, Venere, la Terra, Marte, Vesta, Giunone, Cerere, Pallade, Giove, Saturno ed Herschel.

Un testo interessante per un paio di motivi. Anzitutto traspare in modo evidente la scelta per lo "status" planetario dei nuovi arrivati e poi emerge anche l’incertezza sul nome da dare all’ultimo pianeta scoperto oltre Saturno. Benché la scoperta risalisse al 13 marzo 1781 non si era ancora deciso come si dovesse chiamare. Fortunatamente, poi, nel dubbio tra Herschel e Georgium Sidus venne opportunamente scelto di chiamarlo Urano.

Comparazione tra la dimensione della Luna e quella dei primi quattro asteroidi scoperti

 

Irrompono la fotometria e il micrometro a filo

Il capitolo successivo di questa saga dei diametri venne scritto dalle misure fotometriche. Dopo l’introduzione della scala logaritmica delle magnitudini stellari per opera di Norman Robert Pogson nel 1854 e l’introduzione del primo fotometro stellare (Johan Karl Friedrich Zöllner, 1861), la determinazione delle dimensioni degli asteroidi passò attraverso la misurazione della loro luminosità.

Senza dubbio una tecnica che poteva offrire grandi prospettive, ma che, viste le premesse su cui si fondava, correva il rischio di rivelarsi poco attendibile. Utilizzare la luminosità di un asteroide quale indicatore delle sue dimensioni è certamente corretto, a patto che si conosca e si tenga in debito conto la sua albedo, cioè la capacità riflettente della sua superficie. Non è detto che due asteroidi che presentano identica luminosità abbiano le stesse dimensioni. Poiché un asteroide più scuro riflette meno luce, avrà bisogno di maggiore superficie per uguagliare la luminosità di un altro caratterizzato da una superficie più chiara.

Di questa rischiosa attendibilità, comunque, erano pienamente consapevoli i primi astronomi che usarono la tecnica fotometrica e tutti quanti non mancarono di sottolineare che le loro deduzioni si fondavano sul fatto che tutti gli asteroidi avessero identica albedo. Dovendo poi scegliere quale valore assegnare a questo parametro, la cosa più ragionevole – vista l’appartenenza alla medesima regione del Sistema Solare – sembrò quella di scegliere un’albedo uguale a quella di Marte. Una scelta apparentemente logica, ma assolutamente sbagliata.

Anziché portare un chiarimento, dunque, la tecnica fotometrica contribuì a rendere ancora più fantasmagorico il balletto delle misure proposte per le dimensioni degli asteroidi. La situazione presente nel 1895 e riassunta nella tabella 1 mostra in modo evidente l’incredibile intervallo di valori proposti in quegli anni. Insomma, una gran bella confusione!

In quegli stessi anni, però, venne intrapresa anche un’altra strada, che ben presto si rivelò più proficua e meno irta di ostacoli di quella fotometrica. Tra il 1894 e il 1895, infatti, Edward Emerson Barnard eseguì le prime misurazioni del diametro di Cerere, Pallade, Giunone e Vesta applicando un micrometro a filo sia al rifrattore Lick da 36 pollici sia allo Yerkers da 40 pollici. I valori ottenuti da Barnard (Cerere 781±87 km, Pallade 490±118 km, Giunone 195 km e Vesta 390±46 km) vennero considerati definitivi per oltre mezzo secolo e contribuirono a mettere un po’ d’ordine in quel caos.

Fu solo a partire dall’introduzione delle misure micrometriche che gli asteroidi vennero collocati nel giusto ordine dimensionale. Non dimentichiamo ad esempio che, fino alle osservazioni di Barnard, Vesta era considerato tra gli asteroidi più grandi e questo unicamente sulla base della sua maggiore luminosità.

Il lavoro di Barnard, però, ebbe anche un’altra importante conseguenza. Combinando i valori delle dimensioni da lui ottenute grazie al micrometro con i valori di luminosità registrati fotometricamente, l’astronomo riuscì a stimare le effettive albedo dei quattro asteroidi, mostrando in tal modo come alcune ipotesi precedenti fossero eccessivamente azzardate. Calcolando il rapporto tra le albedo di Cerere, Pallade, Giunone e Vesta con quella di Marte, Barnard dimostrò che le cinque superfici erano davvero molto differenti tra loro. "Questa grande differenza di albedo – ebbe modo di commentare – non è poi così strana. Basta esaminare i quattro maggiori satelliti di Giove per scoprire anche in un sistema così ristretto enormi differenze di albedo". Insomma, grazie a queste prime osservazioni comincia a farsi strada tra gli astronomi la consapevolezza che gli asteroidi non sono affatto tutti uguali, primo passo del viaggio che condurrà all’individuazione delle classi spettroscopiche.

Le dimensioni dei primi quattro asteroidi scoperti, misurate da vari ricercatori, variavano moltissimo; nel disegno
sono comparate le misure prese in determinati periodi storici. Si noti quanto sono difformi dalle misure reali.

 

A conferma dei passi da gigante compiuti da allora nella valutazione dell’albedo, la tabella 2 riporta i valori di questo parametro per i primi quattro asteroidi proposti nel corso degli anni fino alla accurata misurazione di Tedesco compiuta sul finire degli anni 80.

Negli anni 50 la sfida delle piccole dimensioni angolari degli asteroidi venne affrontata ricorrendo anche ad altre interessanti invenzioni. Una di queste fu il diskmeter, una versione più moderna del sistema utilizzato agli inizi dell’Ottocento da Herschel. Si trattava di un dispositivo in grado di creare un’immagine artificiale nel campo visivo del telescopio. Tale immagine poteva essere regolata nell’intensità, nel colore, nel diametro e persino nella sfocatura. Una volta tarato lo strumento puntando una stella, si variavano i parametri (tranne la sfocatura) in modo da adattarla all’immagine dell’asteroide osservato e risalire in tal modo al suo diametro angolare. Un metodo impiegato anche da Gerard Kuiper, che applicò il dispositivo al riflettore di 5 metri di Monte Palomar.

A partire dagli anni 80 venne impiegata con successo anche l’interferometria speckle. Grazie alle misurazioni ottenute con questo nuovo metodo cominciò a emergere l’idea che, a differenza di quanto tacitamente supposto fino ad allora, la forma degli asteroidi non poteva essere ricondotta a una sfera (seppure approssimata) come nel caso dei pianeti. Le misurazioni di Pallade e Vesta compiute da Drummond ed Hege nel 1989 suggerivano per i due asteroidi le seguenti dimensioni:

 

Pallade: 537 ± 29 km 488 ± 11 km 485 ± 11 km
Vesta: 566 ± 11 km 531 ± 15 km 467 ± 15 km

 

Mentre per il primo i valori (più o meno) corrispondono ai dati più recenti, appare un po’ sovrastimata la stazza di Vesta, segno che nonostante tutto aleggia ancora qualche incertezza. Rimane comunque fondamentale il fatto che si comincia a pensare agli asteroidi come a oggetti non necessariamente sferici. Salvo eccezioni, insomma, la raffigurazione migliore per gli asteroidi diventa quella di un ellissoide triassiale.

 

I metodi più recenti

La carrellata storica ci ha ormai praticamente condotto fino ai nostri giorni. E’ evidente che il continuo miglioramento delle tecniche osservative e della strumentazione disponibile si ripercuote anche sulle misurazioni delle dimensioni degli asteroidi.

Il miglioramento degli strumenti di misura del flusso luminoso proveniente da un oggetto, ad esempio, ha reso ancor più affidabile il metodo radiometrico. Sostanzialmente questa tecnica si basa sul confronto tra la luminosità dell’asteroide in luce visibile e quella nell’infrarosso. Dal rapporto tra queste due grandezze viene derivata l’albedo della superficie e, di conseguenza, si può stimare il valore del diametro.

Anche il metodo polarimetrico permette di trovare l’albedo. La tecnica si basa sulla relazione esistente tra la curva di polarizzazione della luce riflessa dall’asteroide e l’albedo superficiale (il cosiddetto effetto Umov). Calibrando in laboratorio tale relazione con l’impiego di polvere di meteoriti e campioni lunari è stato possibile ricavare l’albedo e, come già detto, giungere al diametro.

Notevoli progressi si sono registrati anche sul versante della fotometria infrarossa, la tecnica che si basa sul concetto di temperatura di equilibrio e che viene impiegata con eccellenti risultati anche per oggetti estremamente distanti come i KBO. Basta ricordare i recentissimi sviluppi dovuti proprio a questa tecnica nel caso di 2003 UB313 (il decimo pianeta) per rendersi conto di quanto sia attuale e in piena crescita.

Comincia inoltre a trovare applicazione anche una nuova tecnica, teorizzata fin dagli anni 60, ma che vede la sua prima attuazione solo nel 1978: il metodo delle occultazioni stellari. Il principio è molto semplice e può essere banalmente ricondotto a una eclisse stellare causata dal passaggio di un asteroide. Se molti osservatori sulla superficie terrestre tengono d’occhio ciò che succede in tale circostanza ed eseguono misurazioni sufficientemente accurate, sarà possibile ricostruire la forma e le dimensioni della sagoma dell’asteroide. La riuscita del metodo sta dunque nell’accuratezza delle misurazioni e nella possibilità di disporre di più osservazioni. Il metodo fu impiegato per la prima volta il 29 maggio 1978, allorché Pallade occultò la stella SAO 85009 e il team di Wassermann potè contare su sette differenti osservazioni. Nel dicembre dell’anno seguente fu la volta di Giunone mentre il 13 novembre 1984 toccò a Cerere. Sfortunatamente per noi non è così semplice poter contare su un’occultazione stellare e dunque il metodo non può trovare una applicazione frequente. Per sottolineare la sua validità, comunque, basterà ricordare le recentissime misurazioni di Caronte, il satellite maggiore di Plutone, ottenute con una precisione di 5 chilometri proprio grazie ad un’occultazione dello scorso 11 luglio.

Siamo dunque giunti agli sgoccioli di questa passeggiata storica lunga oltre due secoli ed è il momento di fermarci. Non prima di proporre in modo sintetico in un’ultima scheda ( tabella 3) i risultati più recenti ai quali si è giunti (spesso attraverso la combinazione di metodi differenti) e azzardare un lapidario commento conclusivo.

E’ vero che se confrontiamo differenti autori possiamo imbatterci ancora in alcune differenze nelle misure proposte, ma di certo queste incertezze non hanno assolutamente nulla a che vedere con l’incredibile balletto delle dimensioni che ha caratterizzato i primi decenni dello studio degli asteroidi. Quello ce lo siamo ormai definitivamente lasciato alle spalle. La speranza è che avvenga ora qualcosa di simile anche per i maggiori planetoidi ghiacciati della Fascia di Edgeworth-Kuiper. Probabilmente anche in questo caso sarà solo questione di tempo.

 

 

Tabella 1 - Stime dei diametri dei primi quattro asteroidi nel 1895

L’asterisco accanto ad alcuni valori indica che si tratta di misure fotometriche.

Asteroide

Autore

Dimensioni (km)

1 Cerere

Schröter

2527

Herschel

261

Argelander

362 *

Bruhns

365 *

Galle

637

Knott

1014

Barnard

837

2 Pallade

Schröter

3259

Herschel

196

Lamont

1073

Argelander

254 *

Bruhns

275 *

Pickering

269 *

Barnard

439

3 Giunone

Schröter

2221

Argelander

169 *

Bruhns

185 *

Stone

200 *

Pickering

151 *

4 Vesta

Schröter

536

Mädler

467

Argelander

435 *

Bruhns

370 *

Stone

344 *

Secchi

724

Tacchini

1416

Millosevitch

1014

Pickering

513 *

Barnard

381

 

 

Tabella 2 – L’albedo degli asteroidi

 

Autore

Anno

1 Cerere

2 Pallade

3 Giunone

4 Vesta

Moulton

1907

0,18

0,24

0,45

0,75

Cruikshank

1973

0,06±0,1

0,08±0,02

0,14±0,02

0,21±0,03

Veverka

1973

0,05

0,06

0,19

Zellner

1976

0,068

0,082

0,181

0,271

Hansen

1977

0,050

0,079

0,127

0,235

Morrison

1977

0,054

0,074

0,151

0,229

Tedesco

1989

0,10±0,01

0,14±0,01

0,22±0,02

0,38±0,03

 

Tabella 3 – Dimensioni attuali

Asteroide

Dimensioni (km)

Autore

Anno

1 Cerere

975 x 909

P.C. Thomas et al.

2005

2 Pallade

570 x 525 x 500

D.W. Dunham et al.

1990

3 Giunone

288 x 230

G. Baier e G. Weigelt

1983

4 Vesta

280 x 272 x 227

P.C. Thomas et al.

1997


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Pagina caricata in rete: 14 maggio 2006; ultimo aggiornamento (1°): 14 maggio 2006